lunedì 2 marzo 2015

LA CACCIA ai TORI SELVAGGI




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La nave reale con a bordo il Faraone, i principi reali e le principesse, salpò insieme alle ombre della sera che andavano allargandosi e navigò tutta la notte, prima che le mura del distretto di Shetep,  profilassero l’orizzonte.
Una distesa desolata a nuda si distendeva a perdita d’occhio: un mondo levigato e in continua, lentissima mutazione dove acque, prati e foreste erano scomparsi per sempre o affondati nelle profondità. Shetep era nota per la caccia ai tori selvaggi, passatempo assai amato dai Faraoni.
In piedi sul suo carro da guerra, all’inseguimento di uno splendido esemplare di toro, il faraone aprì la caccia.




Lo seguivano i carri dei principi reali e dei principi ostaggi: figli di Re vassalli o alleati; seguivano gli arcieri e i mandriani che avevano  raccolto in un ampio recinto i tori selvaggi della regione.
Le donne del seguito, spose reali e principesse, erano state fatte allontanare dal campo e dall’alto di una collinetta seguivano ogni fase della caccia; tra loro d’era anche la principessa Nefer.

      


Nefer aveva cercato un buon posto di osservazione e non perdeva neppure un gesto di quanto stava avvenendo nella piana assolata; alle sue spalle, il sole del primo mattino aveva già raggiunto l’orizzonte e da lontano arrivava il rumore dei campanacci degli armenti al pascolo.
“Guardate Thumosis. – la principessa Nefrure tese un braccio – Guardate con quanta spericolatezza si spinge incontro a quel toro dalla testa spaventosa… Oh!... Il nostro divino padre dovrebbe imporgli più prudenza.”
Nefer volse il capo nella direzione indicata; il gesto fece tintinnare gli orecchini di lapislazzulo.
“Quello scervellato – interloquì la voce petulante della principessa Iter – verrà sbalzato dal carro, le cui redini, il principe Omohlo di Creta, con troppa leggerezza gli ha messo nelle mani.”
“Thutmosis è un ottimo guidatore. – puntualizzò Nefer – Se il principe di Creta gli ha affidato la guida del suo carro è perché Thumosis merita la sua fiducia.”
“Thutmosis è il prediletto di nostro padre. – sorrise Nefrure. Aveva un sorriso dolcissimo, la principessa Nefrure – Certamente Thutmosis vorrà fare buona figura ai suoi occhi.”
Nefer guardò il fratello, il fisico nervoso e svelto che prometteva prestanza per l’età matura, poi guardò il Faraone.

Il faraone Meremptha era imponente come una Divinità. Nefer lo guardava ammirata, mentre con la mano sinistra scagliava la lancia e con la destra reggeva le redini e dominava l’irrequietezza dei cavalli; ne ammirava l’assoluto dominio su quelle creature nobili e fiere.
Nefer amava i cavalli ed amava i racconti di caccia e di guerra che come tutte le ragazze a corte aveva ascoltato fin da bambina e che vedevano i loro uomini, padri e fratelli, sempre vincitori.
La corsa dei carri, i muggiti dei tori, lo scalpitio degli zoccoli contro le pietre, lo stridore delle ruote, il corno di caccia del trombettiere, esercitavano su di lei un fascino strano ed irresistibile e la trascinarono giù dalla collina, spingendola a disobbedire agli ordini del Faraone. Lasciò le altre donne e di corsa si portò verso uno di quei sentieri. Di corsa lo attraversò, per raggiungere l’altra collina da dove sarebbe stato più facile seguire le fasi della caccia.
A metà sentiero, però, un potente muggito l’aggredì alle spalle. La ragazza si voltò e restò impietrita: un’enorme massa scura le stava davanti, dieci quintali e più di muscoli  guizzanti sotto un manto di lucido pelo raso.
Un toro.
Nefer sollevò il capo e il suo sguardo andò a perdersi in due pupille di vitreo liquido giallastro. Ubbidendo ad un impulso incontrollato, si voltò per darsi alla fuga; il toro, alle spalle, sbuffava. Lo zoccolo batteva così forte da farle tremare il terreno sotto i piedi.
Da lontano la raggiunsero le grida d’orrore delle donne e lo stridore delle ruote di un carro in avvicinamento: il Faraone stava puntando nella sua direzione.

Un urlo, però, piombò sulla scena come un tuono; attraversò l’aria e la riempì di echi.
Un urlo di guerra.
Uno straniero, un guerriero, calò giù dalla collinetta e si frappose fra il toro e la principessa. Lo scontro fu brevissimo: la lunga, affilatissima spada del guerriero, quelle in uso presso i Popoli di Mare, forgiata nel prezioso metallo-degli-Dei, penetrò nella fronte dell’animale che stramazzò fulminato ai suoi piedi.





Nefer, sempre di corsa, andò quasi a farsi travolgere dai cavalli del carro del Faraone che la evitò solo grazie alla sua perizia di guidatore.
Un bagliore si levò dagli occhi del Faraone mentre, consegnata la principessa alle cure di ancelle accorse premurose e spaventate, scendeva dal carro per andare incontro allo straniero il quale avanzava verso di lui a lunghi passi.
Questi si liberò il capo dall’elmo piumato e mostrò i capelli biondi.
Il suo aspetto era fiero e la fronte grave, gli occhi erano ardenti e la mascella energica e volitiva. La figura, sotto la tunica di pregiata lana, era possente e salda. Odorava di acqua salmastra, di sangue e sudore.
Fu lui a salutare per primo, nel riconoscere le insegne reali che posavano sul largo petto di Meremptha.
“Signore d’Egitto, Figlio degli Dei…” cominciò
Il Faraone lo interruppe e continuando a fissarlo con molta intensità domandò:
“Chi sei? Qual è il tuo nome, straniero? Vieni in amicizia ed alleanza o come nemico? Se è come nemico che sei giunto su queste terre, sappi che io, Meremptha, ho ricacciato in mare popoli invasori. Li ho uccisi e fatti prigionieri a migliaia ed ho costretto le loro donne a servire le donne di Tebe.”
“Giungo nella tua terra, potente Sovrano, - rispose lo straniero  - naufrago e perseguitato da un Fato avverso. Sono supplice e non nemico.”
Il Faraone addolcì un po’ l’espressione del proprio volto; i suoi occhi scuri parvero incassarsi ancora più dentro le orbite mentre fissavano quelli azzurri del suo interlocutore. Scrutava attentamente quel volto dall’aria selvaggia: il volto di un uomo che doveva aver combattuto molte battaglie e non tutte contro altri uomini.
“Il tuo nome, straniero. – disse infine – Possa io conoscere il nome di chi ha salvato la vita di una delle mie figlie e dargli il degno benvenuto nella mia casa.”
“Menelao, io sono, figlio di Atreo e Re di Sparta!”
 (continua)

brano tratto dal libro "OSORKON - Il Guardiano della Soglia"                  

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